Libero arbitrio e determinismo nella fondazione epistemologica delle scienze sociali
Fin da quando ho iniziato a indagare l’uomo e la società, il mio interesse è stato rivolto alla fondazione epistemologica delle scienze sociali. Due interpretazioni della realtà sociale, quella positivistica e quella ermeneutica, allora si fronteggiavano. Tuttavia, in tempi recenti, alcune scienze naturali, le neuroscienze, hanno rivendicato a sé il diritto d’investigare la coscienza (primaria e di ordine superiore), l’intenzionalità, il sé (individuale e collettivo), la volontà e il libero arbitrio. In tal modo, esse si sono appropriate di concetti che appartenevano tradizionalmente alla filosofia ed erano stati assunti come presupposti nella fondazione delle scienze sociali. Questa incursione delle neuroscienze nelle scienze sociali ha avuto conseguenze anche in ambito epistemologico.
Assumiamo la fisica come prototipo delle scienze naturali e la sociologia come prototipo delle scienze sociali. Ci proponiamo di mostrarne non solo i fondamenti comuni ma anche e soprattutto le singole specificità. Nel fare ciò, considereremo la biologia come scienza intermedia tra fisica e sociologia, poiché essa presenta caratteristiche che si possono ricondurre sia alla fisica sia alla sociologia. Il passaggio dalla fisica alla biologia e alla sociologia sarà di tipo ascendente: a ogni passaggio emergerà lo specifico delle singole scienze. Ne segue la rinuncia a ogni tipo di riduzionismo. Particolare rilevanza assumerà il concetto di “realtà” in fisica, in biologia e in sociologia. Vedremo come introdurre, nell’ontologia del mondo esterno (l’essere della fisica e della biologia) l’ontologia del sociale (l’essere sociale). Mostreremo, al riguardo, che la realtà della fisica e della biologia è indipendente dall’osservatore (è ontologicamente oggettiva), mentre la realtà della sociologia è dipendente dall’osservatore (è epistemologicamente oggettiva e normativa). Della fisica e della biologia esamineremo i fondamenti certi e non controversi. Su questi fondamenti costruiremo la sociologia come scienza, di cui forniremo un abbozzo di analisi epistemologica. Il quadro d’insieme che ne risulta può essere definito come “neo-illuminismo”, in cui le diverse manifestazioni del pensiero umano trovano un posto preciso. I temi e i problemi qui discussi sono trattati, con ampia e rigorosa giustificazione, nel mio recente volume La conoscenza umana. Dalla fisica alla sociologia alla religione [G. Di Bernardo, La conoscenza umana. Dalla fisica alla sociologia alla religione, Marsilio, Venezia 2010].
In alternativa, la sociologia può esser fondata indipendentemente dalla fisica e dalla biologia, ma non sarà questa la via che seguiremo.
Iniziamo col presentare le caratteristiche fondamentali della fisica alle origini della scienza moderna. La rivoluzione scientifica dei secoli XVI e XVII, che ebbe come protagonisti Galileo, Cartesio e Newton, rappresenta l’inizio di ciò che oggi denominiamo “scienza”. In quel tempo, la scienza coincideva con la meccanica e l’astronomia. Galileo, in particolare, era convinto che la meccanica fosse la scienza suprema, fondamento e origine di tutte le scienze. Poiché nella meccanica il ruolo della matematica è essenziale, non sorprende che, nella concezione della scienza di Galileo, la matematica sia un requisito determinante e imprescindibile. È famosa, al riguardo, la definizione di “natura” che egli dà nel Saggiatore: «Il libro della natura non si può intendere se prima non s’impara ad intender la lingua, e conoscer i caratteri, né quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto» [G. Galileo, Il Saggiatore, in Opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale, Barbera, Firenze 1929-1939, 20 voll., vol. 6, pp. 197-372.].
La meccanica di Galileo è una scienza formata da leggi che sono esprimibili con il linguaggio della matematica. La matematica ne è, quindi, la condizione necessaria e sufficiente.
La fisica (meccanica e astronomia) diventa l’archetipo, il modello della scienza in generale. Ogni disciplina, che aspira a diventar scienza, deve avere, come la fisica, leggi naturali e deve essere matematizzabile.
I concetti fondamentali della fisica sono i seguenti: osservazione, sperimentazione, leggi, teorie formate da leggi, matematizzazione, mondo chiuso, determinismo, causalità, riduzionismo.
Nel XVI secolo, tuttavia, la nascita della fisica è accompagnata da altre discipline, come la cosmologia, la geologia, la psicologia, la linguistica, la filologia e la storia. Il primo problema che si pone nei loro riguardi è di stabilire se esse sono scienze allo stesso modo in cui lo è la fisica. Alcuni filosofi, principalmente di cultura tedesca, ampliano il concetto di “scienza” e v’ includono anche le scienze sociali e storiche. Nasce così la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito (sociali) e si pone il compito di tracciare una linea di demarcazione tra le une e le altre.
Contro tale distinzione prende posizione il positivismo logico, che vede solo nel modello di scienza elaborato da Galileo e da Newton il presupposto principale di ogni disciplina che aspiri a diventar scienza. I positivisti ritengono che le scienze sociali siano ancora nello stadio dell’infanzia e che possano svilupparsi adottando i modelli in uso nelle scienze più progredite, come la fisica matematica. Ciò significa che le scienze sociali devono avere leggi generali, modelli nomologici di spiegazione e di previsione, teorie assiomatiche. È proprio nel trasferimento del metodo ipoteticodeduttivo dalle scienze naturali alle scienze sociali che nascono difficoltà che mettono a dura prova la visione positivistica e alimentano critiche nei suoi confronti.
Nel delineare il rapporto fra fisica e sociologia, sia i positivisti sia i loro critici hanno ignorato la biologia, come se questa scienza creasse imbarazzo a entrambi. La biologia, viceversa, almeno nella formulazione recente della sua natura e del suo metodo, può gettare tanta luce nell’ampliamento del concetto di “scienza” dalla fisica alla sociologia.
La biologia è considerata oggi una scienza avente pari dignità della fisica. La teoria dell’evoluzione, la genetica e la biologia molecolare hanno definitivamente eliminato perplessità e dubbi sulla sua scientificità. Tuttavia, prima di raggiungere lo statuto attuale, essa ha dovuto superare difficoltà di ogni genere.
Fin dall’antichità, i filosofi hanno tentato di definire la vita e le caratteristiche degli esseri viventi proponendo le più disparate soluzioni. Cartesio, ad esempio, propose di risolvere il problema della vita cancellandolo: un organismo vivente altro non è che una macchina. Filosofi di formazione matematica, logica o fisica sostennero il punto di vista di Cartesio e cercarono di annullare la differenza tra natura vivente e natura inanimata.
La maggior parte dei naturalisti, tuttavia, era restia a riconoscersi in tale atteggiamento e, per rivendicare l’autonomia del vivente, escogitò il concetto di “forza vitale”: come i pianeti e le stelle sono controllati da una forza invisibile che Newton ha chiamato forza di gravità, così i movimenti degli organismi viventi sono controllati da una forza invisibile denominata forza vitale. Coloro che credevano in tale forza erano chiamati vitalisti.
Il vitalismo divenne subito popolare e rappresentò una qualificata reazione al meccanicismo cartesiano. Essa ebbe, tra i suoi numerosi sostenitori, anche Henri Bergson (1859-1941) e Hans Driesch (1867-1941), i quali cercarono, autorevolmente ma inutilmente, di dimostrare l’esistenza di una forza vitale. Sarebbe stato compito della genetica e della biologia molecolare rivelarne definitivamente l’infondatezza.
Un altro ostacolo che la biologia dovette eliminare prima di assurgere alla stessa dignità scientifica della fisica, fu la teleologia. Il vitalismo scomparve dalla biologia quando si comprese chiaramente che gli esperimenti che dovevano convalidarlo in realtà fallivano. Più difficile risultò, invece, il processo d’eliminazione della teleologia. Ciò si deve principalmente al fatto che il termine “teleologico” è stato applicato a fenomeni naturali sostanzialmente differenti. Nasce così l’esigenza di ricercare, nella letteratura biologica e filosofica, un modo per classificarne i diversi significati.
Ernst Mayr dimostra che quattro dei cinque fenomeni che tradizionalmente erano considerati teleologici possono esser completamente spiegati dalla scienza, mentre il quinto, la teleologia cosmica, non esiste. [E. Mayr, Storia del pensiero biologico. Diversità, evoluzione, eredità, trad. it. a cura di P. Ghisleni, edizione italiana a cura di P. Corsi, Bollati Boringhieri, Torino 1999.]
L’eliminazione del vitalismo e del finalismo dalla biologia rappresentò un primo passo importante verso la sua fondazione come scienza avente la stessa dignità della fisica.
Un secondo passo, altrettanto importante, fu la dimostrazione dell’impossibilità di applicare alla biologia alcuni principi fondamentali della fisica. Fisicalisti e positivisti come Carnap, Hempel, Popper e Kuhn continuavano a sostenere la riduzione alla fisica delle discipline che aspiravano ad esser scienza. La biologia, anche se da loro trascurata, non faceva eccezione. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, autorevoli filosofi come Hull, Ruse e Sober basavano la filosofia della biologia sulla fisica. La loro formazione era logico-matematica ma non biologica. Come reazione, si veniva delineando il compito di fondare la filosofia della biologia non più sulla logica e la matematica, quanto, piuttosto, sui concetti specificamente unici della biologia (lo specifico biologico). Ciò portava alla definizione di “biologia” come scienza autonoma.
La biologia, al termine del suo secolare travaglio filosofico, risulta costituita da due parti sostanzialmente diverse: la biologia meccanicista (genetica e biologia molecolare) e la biologia evoluzionista (teoria dell’evoluzione). La prima si occupa della fisiologia degli organismi viventi, come i processi cellulari (inclusi quelli del genoma), che in definitiva, possono essere spiegati con la chimica e la fisica. La seconda, invece, ha a che fare con gli aspetti del mondo vivente che riguardano il tempo storico e l’evoluzione. Per spiegarla non servono le leggi della fisica o della chimica, ma è necessaria una specifica metodologia basata sulle narrazioni storiche e sugli scenari ipotetici. Lo specifico biologico, non riducibile alla fisica, è dato dalla biologia evoluzionista.
Definita la duplice natura della biologia [E. Mayr, What Makes Biology Unique? Considerations on the Autonomy of a Scientific Discipline, trad. it., L’unicità della biologia. Sull’autonomia di una disciplina scientifica, Cortina, Milano 2005.], si tratta di stabilire quali principi e quali concetti della fisica sono a essa applicabili. Da quanto detto in precedenza, è evidente che la biologia è in parte simile alla fisica e in parte differente da essa.
Se la biologia, costituita da una parte meccanicista e da una parte evoluzionista, è una scienza, allora è necessario rivedere e ampliare il concetto di “scienza” di Galileo, Newton e i positivisti: essa deve poter includere anche quelle caratteristiche che sono tipiche della biologia evoluzionista.
La biologia, a differenza della fisica, non ha un fondamento matematico. Ciò significa che possono esistere scienze che non soddisfano il requisito della matematica imposto da Galileo, Newton e i positivisti.
Ogni scienza è costituita da teorie. Le teorie, a loro volta, possono essere costituite da leggi o da concetti. Mentre le teorie della fisica sono costituite da leggi, le teorie della biologia sono costituite da concetti. I concetti più importanti della biologia sono: “evoluzione”, “biopopolazione” e “selezione naturale”.
La differenza tra fisica e biologia emerge chiaramente se confrontiamo la natura del vivente con la natura dell’inanimato. I sistemi biologici, a causa della loro complessità, sono dotati della capacità di riproduzione, metabolismo, replicazione, regolazione, adattabilità, crescita e organizzazione gerarchica. Nulla di simile esiste nel mondo inanimato della fisica.
Il concetto di “biopopolazione” è forse quello che meglio caratterizza la differenza tra mondo inanimato e mondo vivente. Il primo è costituito da classi i cui membri sono identici, per cui le apparenti variazioni tra i membri sono casuali e quindi irrilevanti. Nel mondo vivente, viceversa, rappresentato da una biopopolazione, ogni individuo è unico e irrepetibile. La variazione non è irrilevante ma determinante per l’evoluzione.
Dalla duplice natura della biologia discende la duplice causalità: la prima è costituita dalle leggi naturali che valgono per i fenomeni fisici e inanimati; la seconda è data dai programmi genetici, che caratterizzano in maniera esclusiva il mondo vivente. Non esiste un solo fenomeno o processo vivente che non sia controllato da un programma genetico contenuto nel genoma. Nulla di simile esiste nel mondo inanimato.
Un processo assolutamente sconosciuto nel mondo inanimato è quello di selezione naturale, introdotto da Darwin per confutare il concetto di “disegno”, sostenuto dai teologi naturali, secondo cui si deve al disegno divino se gli organismi si sono perfettamente adattati gli uni agli altri e all’ambiente in cui vivono. La selezione naturale, a differenza delle leggi deterministiche della fisica, è il risultato dell’interazione di numerosi fattori, tra cui svolge un ruolo fondamentale il caso. [Ch., Darwin, L’origine delle specie, Introduzione di Giuseppe Montalenti, Boringhieri, Torino, 1967.]
La biologia evoluzionista, o semplicemente la biologia poiché lo specifico della biologia è proprio la parte evoluzionista di essa, non essendo riducibile alla fisica, non può avvalersi della sua metodologia. La metodologia della biologia, viceversa, deve tener conto dell’unicità dei fenomeni che essa studia, come l’estinzione dei dinosauri o l’origine degli esseri umani. Per spiegare tali fenomeni non si può far ricorso alle leggi, né si possono compiere esperimenti. L’estinzione dei dinosauri è un caso singolare e unico che non si può derivare da una legge generale, né si può sottoporre a sperimentazione. Per spiegarlo, s’introduce il metodo della narrazione storica, mediante cui si costruisce uno scenario, di cui poi si valuta il valore esplicativo sulla base delle evidenze esistenti.
Si comprende bene perché il riduzionismo, essenziale per la fisica, non può valere per la biologia. I sistemi biologici sono costituiti da parti che sono strutturate in livelli che interagiscono tra di loro. Le interazioni avvengono tra geni, tra geni e tessuti, tra cellule e altre parti dell’organismo, tra organismo e ambiente inanimato in cui vive, tra organismi differenti. Secondo il fisicalismo, si dovrebbero ridurre i livelli superiori a quello inferiore, determinarne le proprietà e spiegare così il sistema nel suo complesso. Applicare il riduzionismo ai sistemi biologici significherebbe far perdere ai singoli livelli la loro specificità: tutto assumerebbe il significato del livello più basso, che è appunto quello della fisica.
Il tentativo di creare una filosofia della biologia basandola sulla fisica non poteva non rivelarsi fallimentare. Era pertanto necessario uscire dall’ambito ristretto del fisicalismo per rivendicare l’autonomia della biologia come scienza avente pari dignità della fisica. La duplice natura della biologia ha imposto l’ampliamento del concetto di scienza così come lo avevano inteso Galileo, Newton e i positivisti.
Se volessimo tracciare una linea di demarcazione tra le scienze naturali e le scienze sociali, allora vedremmo che questa linea attraversa a metà la biologia, collegando la sua parte meccanicista (genetica e biologia molecolare) alla fisica e la sua parte evoluzionista alla sociologia.
Queste riflessioni sui fondamenti della fisica e della biologia servono per preparare i presupposti epistemologici della sociologia. La fondazione della sociologia può esser ora vista come ampliamento della fisica e della biologia. Seguiamo, passo dopo passo, tale processo.
Con Galileo e Newton, la fisica (meccanica ed astronomia) diventa il modello di scienza in generale. Ogni disciplina, che pretenda d’essere scienza, deve presentare le stesse caratteristiche della fisica: esistenza di leggi e traducibilità delle leggi in asserti matematici.
La biologia, con la sua duplice natura, ha creato non poche difficoltà ai positivisti sostenitori di questa visione della scienza, tanto è vero che essi hanno preferito ignorarla. Oggi a nessuno verrebbe in mente di mettere in dubbio la scientificità della biologia: non solo della biologia meccanicista (genetica e molecolare), ma anche della biologia evoluzionista (la teoria dell’evoluzione). Ciò, tuttavia, ha richiesto un ampliamento del concetto di “scienza”. Il modello di scienza, elaborato da Galileo, non avrebbe potuto contenere la parte evoluzionista della biologia. La biologia è una scienza, anche se non soddisfa tutti i requisiti della fisica, tra cui le leggi e la matematizzazione.
Lo sviluppo del concetto di “scienza”, che parte dalla fisica e attraversa la biologia, deve continuare anche per la sociologia. Come la biologia nasce da un ampliamento della fisica, così la sociologia deve essere un ampliamento sia della fisica sia della biologia. Alla duplice natura della biologia corrisponderà la triplice natura della sociologia. Come la biologia ha una sua specificità non riducibile alla fisica, così la sociologia ha una sua specificità non riducibile né alla biologia né alla fisica. Una filosofia della sociologia deve essere fondata su tale specifico. Essa deve procedere dal basso (fisica) verso l’alto (sociologia), così come sostenuto dall’emergentismo. Non vale, pertanto, il percorso inverso, dall’alto verso il basso, che giustificherebbe forme di riduzionismo, come, ad esempio, la proposta di Eduard Osborne Wilson di ridurre la sociologia alla biologia.
Come abbiamo confrontato le caratteristiche della biologia con quelle della fisica, così confronteremo le caratteristiche della sociologia con quelle della biologia evoluzionista.
Da tale confronto, emergono analogie sul piano epistemologico e metodologico (il metodo storico della narrazione). Tuttavia, tra la sociologia e la biologia esiste una profonda differenza se le esaminiamo rispetto al concetto di “realtà”. La realtà sociale presenta le stesse caratteristiche della realtà biologica? Se la risposta è negativa, allora in che cosa consiste la differenza? La risposta a queste domande renderà evidente lo specifico della sociologia.
Quando parliamo di realtà biologica, intendiamo riferirci a organismi viventi, concretamente esistenti e osservabili. Essi esistono oggettivamente allo stesso modo in cui esistono gli oggetti che costituiscono la realtà fisica (montagne, alberi, fiumi, stelle ecc.). Essi sono cavalli, pesci, rettili, uomini ecc. Sono costituiti da materia e li possiamo percepire con i nostri sensi. Gli oggetti della biologia, da questo punto di vista, sono come gli oggetti della fisica. La differenza che intercorre tra gli uni e gli altri è che, mentre la realtà biologica è vivente, quella della fisica è inanimata.
La realtà sociale presenta le stesse caratteristiche della biologia e della fisica? È anch’essa percepibile attraverso i nostri sensi? È oggettiva e preesiste all’uomo? La risposta a queste domande induce ad analizzare le caratteristiche della realtà sociale.
Il punto di vista dei positivisti sulla realtà sociale è chiara e precisa: poiché la sociologia è una scienza come la fisica, gli oggetti che compongono la sua realtà presentano le stesse caratteristiche degli oggetti fisici (esistono oggettivamente, indipendentemente dall’uomo). È proprio tale esistenza oggettiva della realtà sociale che rende possibile l’individuazione delle sue leggi e la matematizzazione. Questo mondo è conosciuto dal soggetto passivamente attraverso i propri sensi: quanto più debole è l’influenza esercitata dal soggetto, tanto più rigorosa è la conoscenza acquisita mediante strumenti controllabili. Il senso che il soggetto conferisce al mondo, se non è basato sull’esperienza (e quindi sulla verificabilità), non solo è un non-senso, ma è, altresì, d’ostacolo alla conoscenza scientifica.
I filosofi che hanno cercato di dare alle scienze sociali un fondamento positivistico (scientifico nell’accezione sopra specificata), come, ad esempio, Auguste Comte e Herbert Spencer, hanno accolto, in tutta la sua portata, l’assunzione gnoseologica precedente. Quindi, anche per la realtà sociale, si è data una fondazione, in tutto e per tutto, simile a quella della fisica. Ma le difficoltà ben presto si sono palesate. La prima, forse la più importante, riguarda la distinzione tra fatti naturali e fatti umani. I fatti umani (spirituali, culturali, mentali, storici, ecc.) presentano caratteristiche differenti da quelli naturali oppure sono, in ultima istanza, riducibili a essi? Il positivismo ha sostenuto, con tutti i mezzi a disposizione, la seconda tesi perché con essa si evitano conseguenze indesiderabili e in contrasto con i propri principi generali come, ad esempio, l’unità della realtà, il monismo metodologico, il criterio empirico di significanza, ecc.
È in tale ambito che si situa la fondazione positivistica delle scienze sociali operata da Émile Durkheim, che ha influenzato profondamente una delle più importanti tradizioni della sociologia contemporanea. Il presupposto principale da cui egli parte consiste nella convinzione che, ontologicamente, i fatti sociali sono “cose” e quindi simili ai fatti naturali, per cui la realtà sociale presenta un’oggettività che può esser indagata col metodo della fisica. Considerando tale concetto di “oggettività”, Durkheim è convinto che si possono scoprire gli effettivi processi della società e che, in tale compito, lo scienziato sociale deve descrivere i fatti sociali e le loro reciproche relazioni come se gli fossero estranei, ossia eliminando tutto ciò che possa inerire alla propria soggettività. Quindi, l’attività scientifica, avente per oggetto la società, si presenta come indipendente rispetto alla società stessa. Tale indipendenza è il presupposto fondamentale per individuarne le leggi. Sono proprio queste leggi che conferiscono significato agli individui, ai gruppi, alle istituzioni.
La realtà sociale, diversamente da quanto pensato dai positivisti, è una creazione umana. Essa esiste finché gli uomini che l’hanno creata credono in essa. Cessa di esistere quando non vi credono più.
Nel mio volume Le regole dell’azione sociale edito nel 1983 da Il Saggiatore [G. Di Bernardo, Le regole dell’azione sociale, il Saggiatore, Milano 1983.], mostravo, soprattutto nel capitolo settimo intitolato “La fondazione del sociale”, in che modo la realtà sociale viene costruita dall’uomo mediante le regole costitutive. Alcuni anni dopo, nel 1995, John Searle pubblicava un’opera di grande rilevanza The Construction of Social reality, ove l’autore propone di usare le regole costitutive per la creazione della realtà sociale. Rispetto alle tesi sostenute nel mio volume del 1983, l’indagine svolta da Searle è più ampia, profonda ed esaustiva. Per quel che mi riguarda, condivido le tesi fondamentali che egli ha proposto e sviluppato nei suoi lavori. Metterò in relazione queste tesi con i miei personali contributi alla fondazione epistemologica della sociologia.
La costruzione della realtà sociale, secondo le linee proposte da Searle, parte dalla distinzione tra fatti naturali e fatti sociali. Allo scopo di rendere immediatamente evidenti le riflessioni sulla costruzione della realtà sociale, presenterò un esempio di Searle. Egli scrive:
«Considerate una semplice scena come la seguente. Io entro in un caffè a Parigi e siedo a un tavolino. Viene il cameriere e io pronuncio un frammento di una frase in francese. Dico: “Un demi, Munich, à pression, s’il vous plait”. Il cameriere porta la birra e io la bevo. Lascio del denaro sul tavolo e mene vado. Una scena innocente, ma la sua complessità metafisica è davvero sconcertante, e la sua complessità avrebbe tolto il respiro a Kant se egli si fosse preoccupato di riflettere su tali questioni. Si noti che non possiamo comprendere le caratteristiche della descrizione che ho appena fornito attraverso il linguaggio della fisica e della chimica. Non c’è nessuna descrizione fisico-chimica adeguata per definire “ristorante”, “cameriere”, “frase in francese”, “denaro” o anche “sedia” e “tavolo”, sebbene tutti i ristoranti, i camerieri, le frasi in francese, il denaro e le sedie e i tavoli siano fenomeni fisici. Va osservato, inoltre, come la scena così descritta presenti un’enorme ontologia invisibile: il cameriere non è effettivamente il proprietario della birra che mi ha portato, ma è assunto dal ristorante, al quale la birra appartiene. Al ristorante viene richiesto di registrare una lista dei prezzi di tutte le boissons , e anche se non vedrò mai questa lista si esige da me di pagare soltanto il prezzo registrato. Il proprietario del ristorante è autorizzato a esercitare dal governo francese. Come tale, è soggetto a un migliaio di norme e regolamenti di cui non so nulla. Io ho il diritto di essere qui in primo luogo solo perché sono un cittadino degli Stati Uniti, in possesso di un passaporto valido, e sono entrato legalmente in Francia.
Si noti, inoltre, che benché la mia descrizione intendesse essere il più neutrale possibile, il vocabolario introduce automaticamente criteri normativi di valutazione. I camerieri possono essere competenti o incompetenti, onesti o disonesti, sgarbati o gentili. La birra può essere acida, svaporata, gustosa, troppo calda o semplicemente deliziosa. I ristoranti possono essere eleganti, pessimi, raffinati, volgari o fuori moda, e così via per le sedie e i tavoli, il denaro e le frasi francesi.
Se, dopo aver lasciato il ristorante, io vado poi ad ascoltare una conferenza o vado a un ricevimento, la dimensione dell’onere metafisico che sto sopportato non fa che crescere; e talvolta ci si può chiedere in che modo lo si possa sopportare»[J. Searle, The Construction of Social Reality, tr. it. di A. Bosco, La costruzione della realtà sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1996, pp. 9-10.]
Questo esempio, appena descritto, è uno degli innumerevoli casi che esperiamo quotidianamente e che, nel complesso, costituiscono la nostra vita sociale.
La prima considerazione rilevante, al riguardo, è che la realtà sociale ha una duplice ontologia: una visibile, osservabile, costituita dal cameriere, dalla birra, dal tavolo, dal denaro, e l’altra invisibile, costituita dal significato del denaro, dai regolamenti sulla gestione del ristorante, dai giudizi sulla birra, sul cameriere, sul locale ecc.
La seconda considerazione rilevante, che discende dalla prima, è che ogni ontologia della realtà sociale deve basarsi sia sulla parte visibile sia sulla parte invisibile. La parte visibile è simile all’ontologia della fisica, mentre la parte invisibile, non riducibile alla fisica, è lo specifico della sociologia. Il problema che allora si pone è quello di inserire l’ontologia specifica della realtà sociale all’interno dell’ontologia generale.
In maniera schematica, possiamo affermare che l’ontologia della realtà esterna all’uomo è basata su due teorie: la “teoria atomica” della fisica e la “teoria evolutiva” della biologia, che spiegano, rispettivamente, la materia inanimata e la materia vivente. Da ciò segue che la realtà è costituita da particelle fisiche, che sono organizzate in sistemi, come le montagne, i pianeti, i fiumi, gli uomini. Certi sistemi viventi evolvono secondo la selezione naturale. Alcuni sistemi viventi hanno sviluppato il cervello e il cervello ha sviluppato la coscienza, come nell’uomo e negli animali superiori. La coscienza si esprime mediante l’intenzionalità, ossia la capacità di rappresentare a se stessi oggetti e stati del mondo esterno. La domanda che si pone al riguardo è: com’è possibile inserire la realtà sociale, così come la stiamo presentando, all’interno di tale ontologia?
La terza considerazione rilevante, che discende da quanto detto in precedenza, è che nel mondo esistono sia caratteristiche indipendenti da noi sia caratteristiche che dipendono da noi. Le montagne, le stelle e i fiumi esistono indipendentemente dalla rappresentazione che possiamo avere di loro. Nel mondo, tuttavia, esistono anche oggetti che dipendono da noi. Si pensi, ad esempio, a un oggetto, che è in parte costituito da legno e in parte da metallo. Queste caratteristiche sono intrinseche all’oggetto e non dipendono da me. Ma se questo oggetto lo descrivo come “martello”, la caratteristica del martello non è costituita da particelle atomiche, come per il legno e il metallo. L’oggetto martello esiste in dipendenza dei soggetti che lo hanno inventato e che lo usano. Il considerare martello l’unione di legno e di metallo non aggiunge alcun oggetto materiale a quelli preesistenti, ma aggiunge caratteristiche epistemicamente oggettive che dipendono dagli utilizzatori del martello. Diremo anche che il martello esprime un’ontologia soggettiva.
Da tale ontologia, si arriva alla costruzione della realtà sociale specificando le nozioni di “sé collettivo” e di “regola costitutiva”.
Il sé (individuale e collettivo) discende dall’io. Sarebbe importante, perciò, definire il concetto di “io”. Tuttavia, tale compito equivale all’inoltrarsi in un labirinto di analisi filosofiche, sostanzialmente diverse e contrastanti (dallo scetticismo di Hume alla fondazione trascendentale di Husserl), da cui sarebbe difficile venir fuori con una nozione di “io” chiara e precisa. Abbandoneremo, quindi, la filosofia per andare a vedere ciò che le neuroscienze dicono al riguardo.
Secondo Gerald Maurice Edelman [G. M. Edelman, Second Nature, trad. it. di S. Frediani, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, Cortina, Milano 2007.], i cambiamenti neurali che si manifestano all’origine nel linguaggio sono gli stessi da cui emerge la coscienza di ordine superiore. Ciò consente la costruzione di un sé a partire da relazioni sociali ed affettive. Pertanto, l’emergenza della coscienza di ordine superiore, resa possibile dal linguaggio, trova un supporto necessario nelle relazioni sociali. Se l’uomo non comunicasse con altri uomini, non vi sarebbe lo sviluppo del linguaggio e quindi dell’intenzionalità e del sé. Da ciò segue che l’io, il sé, il sé collettivo e l’intenzionalità sono a fondamento dello sviluppo della coscienza di ordine superiore e presiedono le relazioni sociali. Se volgiamo lo sguardo alle esperienze della vita reale, come l’esecuzione di un concerto, una partita agli scacchi, una funzione religiosa o una lezione all’università, vediamo operare il sé collettivo.
Il sé collettivo (anche nella sua espressione come intenzionalità collettiva) giustifica i fatti sociali. Esistono, tuttavia, alcuni fatti sociali che presentano caratteristiche specifiche che richiedono, per la loro giustificazione, l’uso delle regole costitutive.
Il richiamo dell’attenzione sulle regole costitutive si deve a John Rawls, il quale, nel saggio Two Concepts of Rules del 1955 [J. Rawls, Two Concepts of Rules, in «Philosophical Review», 64.], delinea la distinzione tra regole regolative e regole costitutive. Sono regolative quelle regole che disciplinano attività che esistono indipendentemente dalle regole, come per esempio, il divieto di fumare nei locali pubblici o l’obbligo di attenersi al codice della strada. In tali casi, i locali pubblici e la strada preesistono alle regole che vuole disciplinarli. Esse controllano forme di comportamento che preesistono alle regole. Tuttavia, non tutte le regole sono regolative. Ve ne sono alcune che non regolano ma costituiscono, creano ciò che è regolato. Queste sono le regole costitutive. Un esempio classico è il gioco degli scacchi. Per giocare a scacchi, è necessario conoscere non solo le regole regolative che riguardano la strategia per mettere sotto scacco matto l’avversario, ma anche le regole costitutive mediante cui sono creati i pezzi (re, regina, cavallo, torre ecc.). Diremo, ad esempio, che “cavallo” è quel pezzo che, nel gioco degli scacchi, è mosso a “L”. Ciò significa che qualsiasi oggetto (un pezzo di legno, una pietra, un vetro) che sia mosso a “L” nel gioco degli scacchi è “cavallo”. Viceversa, se pongo sulla scacchiera il cavallo vero, il quadrupede che nitrisce, ma non lo muovo a “L”, quel cavallo non è cavallo. È proprio la regola costitutiva che crea l’oggetto cavallo nel gioco degli scacchi. Lo stesso avviene per tutti gli altri pezzi, le mosse, ecc. L’insieme di tutte le regole costitutive crea qualcosa che non esisteva prima denominato “gioco degli scacchi”. È chiaro che le regole costitutive, sebbene necessarie, non sono sufficienti per giocare a scacchi: non basta muovere il cavallo a “L” per giocare. Per giocare sono necessarie anche le regole regolative che esprimono la strategia del gioco che è mettere sotto scacco matto l’avversario. L’insieme delle regole costitutive e regolative definisce il gioco degli scacchi. Esempi classici di regole costitutive sono quelli che riguardano il battesimo e l’iniziazione massonica. L’uomo non nasce cristiano ma lo diventa con il battesimo. Il battesimo gli conferisce una dimensione (quella cristiana) che non aveva prima. In tal caso, la regola costituisce un uomo cristiano al momento in cui il prete pronuncia la frase: “Io ti creo cristiano”. Lo stesso avviene in Massoneria. Si diventa massone al termine della cerimonia d’iniziazione quando il Venerabile della Loggia pronuncia la frase: “Io ti costituisco, io ti creo massone”. Da quel momento, il neofita acquista una dimensione (quella massonica) che non aveva prima e che lo caratterizzerà per tutta la vita.
Le regole costitutive, come creano il gioco degli scacchi così creano quei fatti sociali che sono stati denominati istituzionali. I fatti istituzionali possono esistere soltanto all’interno di un sistema di regole costitutive. Se i fatti istituzionali sono proprio quei fatti che consentono la nascita e lo sviluppo delle società, si comprende l’importanza delle regole costitutive. Esempi tipici di fatti istituzionali sono i governi e tutte le istituzioni statali, il matrimonio, il denaro.
La forma logica delle regole costitutive è la seguente: “X equivale a Y nel contesto C”. Così, se X è un oggetto (di legno, di ferro, di vetro ecc.) e Y è cavallo, diremo che l’oggetto X è cavallo nel contesto (nel gioco) degli scacchi. Per applicazioni delle regole costitutive alla società, si veda il mio citato volume La conoscenza umana. Dalla fisica alla sociologia alla religione.
A conclusione di questa breve indagine sulla fondazione della sociologia, ne riassumiamo i punti centrali.
1. La costruzione della sociologia, partendo dalla fisica, avviene per via ascendente (emergentismo). In tal modo, si allarga il concetto di “scienza” senza perdere la specificità delle singole scienze. Viceversa, se si segue il percorso inverso del riduzionismo, dalla sociologia verso la fisica, si perde, a ogni riduzione, lo specifico delle singole scienze. Tutti i tentativi di ridurre la sociologia alla biologia, tra cui quello recente di Eduard Osborne Wilson sono da respingere.
2. Conseguenza di ciò è che la sociologia deve esser fondata sulla sua triplice natura: quella fisica, quella biologica e quella specifica (l’invisibile creato dalle regole costitutive). Poiché l’invisibile è caratterizzabile come normativo, rientra in discussione il rapporto fra “essere” e “dover essere”, in cui il dover essere è da intendere come normativo. In tal caso, tuttavia, è necessario rivedere il rapporto “essere/dover essere”, poiché le formulazioni datene in filosofia sono inadeguate. Faccio riferimento, in particolare, alle analisi sull’argomento prodotte dalla filosofia analitica e all’inconcludenza dei suoi risultati. A parte il ripensamento critico di autorevoli studiosi come Putnam [I. Putnam, Fatto/valore. Fine di una dicotomia e altri saggi, trad. it. di G. Pellegrino, Introduzione di M. De Caro, Fazi Editore, Roma 2004.] in Fatto/valore. Fine di una dicotomia, se tale rapporto è considerato al di fuori dell’etica dove era stato confinato, ma riferito al modo d’intendere la realtà sociale come qui è stato proposto, allora l’essere di cui si parla, quello sociale costruito mediante le regole costitutive, assume un significato completamento nuovo e diverso. Tra il normativo (dover essere) e i fatti sociali e istituzionali (essere) non vi è il “salto logico” come aveva dichiarato Hume e continuamente ripetuto, ma vi è un rapporto diretto di costituzione e di regolazione. Si pensi al caso esibito da Searle sulla consumazione di un bicchiere di birra in un bar. Il rifiuto della legge di Hume consente di stabilire una connessione tra dover essere (valori, norme, regole, desideri, credenze) ed essere (azione). Come giustificare tale connessione? Il dover essere può esser inteso come ragione per spiegare l’azione? A tali quesiti, si possono dare due risposte: 1. Le ragioni (dover essere) sono cause sufficienti da cui segue logicamente l’azione, 2. Le ragioni non sono cause sufficienti per spiegare l’azione. Gli studiosi si dividono, al riguardo, secondo che preferiscano la prima o la seconda risposta. Per quel che mi riguarda, io sono a favore della seconda, poiché ritengo che non vi sia conseguenza logica tra le ragioni dell’azione e l’azione stessa.
Spiegare le azioni e` il compito principale delle scienze sociali. Per fare cio`, si richiede un modello che mostri la connessione tra valori e norme, intesi come premesse, e azione, intesa come conclusione. Nelle Conoscenza umana, ho costruito un modello esplicativo dell’azione basato sul ragionamento pratico, seguendo alcuni suggerimenti di Georg Henrik von Wright, il quale, riprendendo le critiche che Wittgenstein aveva rivolto alla teoria causale dell’azione, aveva proposto un modello in alternativa a quello nomologico-inferenziale di Hempel, come appare nel suo volume Spiegazione e comprensione . [G. H. von Wright, Explanation and understanding, trad. it. di G. Di Bernardo, Spiegazione e comprensione, Il Mulino, Bologna 1977 e 1988.]
Il mio modello, che ho denominato “modello pratico-inferenziale di spiegazione dell’azione”, si basa sul ragionamento pratico, la cui prima formulazione si deve ad Aristotele, e sulle analisi di von Wright. La sua caratteristica fondamentale e` che in esso si nega che le ragioni possano essere le cause sufficienti dell’azione. Dal fatto che il soggetto abbia intenzionato valori e norme non segue logicamente l’azione. Il soggetto, prima di arrivare all’azione, puo` cambiare volonta`. In tal modo, si escludono tutte le forme di determinismo e si riafferma il libero arbitrio.
Il ruolo del soggetto, nella costruzione della realtà sociale, è fondamentale. Nell’esplicitare tale ruolo, infatti, ho mostrato l’importanza dell’inferenza pratica nella spiegazione dell’azione, che rende intelligibili le azioni dei singoli soggetti. Il problema che ora si pone è come “uscire” dalla soggettività per fondare il sociale. Nella Conoscenza umana, si trova la mia proposta al riguardo.
3. I precedenti risultati richiedono una revisione e un ampliamento dell’ontologia basata su fisica, chimica e biologia. Il mondo chiuso, che caratterizza tale ontologia, deve essere aperto in maniera tale da includervi anche la realtà sociale nel suo specifico invisibile (normativo). A tale riguardo, è necessario esplicitare la duplice natura del normativo: 1. È all’esterno della realtà sociale o 2. È all’interno della realtà sociale. Se è all’esterno, allora esso è costituito da valori, norme, regole (regolative) il cui compito è di orientare l’azione, stabilendo se essa è permessa, obbligatoria o vietata. In tal caso, il rapporto è fra dover essere ed essere. La logica che si applica a questo dominio di normativo è la logica deontica [G. Di Bernardo, Introduzione alla logica dei sistemi normativi, Il Mulino, Bologna 1972.]. Se, viceversa, esso è all’interno della realtà sociale, nel senso che la costruisce con le regole costitutive, allora il rapporto è fra dover essere e dover essere. La logica capace dì esprimere questo significato di normativo è ancora da inventare.
Lo sviluppo della tesi secondo cui il normativo è all’esterno della realtà sociale porta alla costruzione di sistemi normativi, i quali, pur essendo tipi ideali, spiegano e giustificano le azioni morali e giuridiche dell’uomo. Nel volume La conoscenza umana, li ho definiti “tetici” e “proeretici”.
L’aver preferito il libero arbitrio al determinismo presuppone la giustificazione di tale scelta. La disputa delle diverse tesi filosofiche a favore o contro il libero arbitrio, per quanto affascinante possa sembrare, non ha ancora trovato un esito soddisfacente. Sul piano filosofico, le tesi a favore del determinismo sono altrettanto valide come quelle del libero arbitrio. La scelta dell’uno o dell’altro, in definitiva, risiede nella preferenza del soggetto pensante. La mia stessa fondazione epistemologica delle scienze sociali, basata sul libero arbitrio, non è esente dalle critiche che le vengono mosse dai sostenitori del determinismo.
Una soluzione, che ponga fine a questa millenaria questione, va ricercata al di fuori della filosofia. Una possibile soluzione, empiricamente verificabile, viene dalle neuroscienze. Si deve a Benjamin Libet e ai suoi collaboratori il contributo alla chiarificazione del libero arbitrio, che Libet esprime nel volume Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza .[B. Libet, Mind Time. The Temporal Factor in Consciousness, tr. it. di P. D. Napolitani, Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza, edizione italiana a cura di E. Boncinelli, Cortina, Milano 2007.] Sulla base di risultati sperimentali, Libet perviene alla conclusione che il libero arbitrio esiste, anche se in un modo parzialmente differente da come e` stato rappresentato nella filosofia.
Il libero arbitrio, secondo Libet, non solo è espressione dell’attivita` cosciente del cervello, ma inizia prima nell’inconscio ed esercita un veto circa la possibilita` di arrivare o no all’azione.
Poiché sulle ricerche sperimentali di Libet vi sono fraintendimenti, ritengo opportuno esaminarle in maniera rigorosa e compiuta.
Il contributo di Libet alla chiarificazione del rapporto fra eventi neurali ed esperienza consiste nella scoperta secondo cui noi decidiamo inconsciamente di agire prima di pensare di aver preso la decisione di agire.
Cerchiamo di comprendere, innanzitutto, l’esperimento da cui discende la sua scoperta fondamentale. Libet chiedeva ai partecipanti alla ricerca di muovere il polso in un momento da loro scelto, guardando un puntino che, muovendosi, indicava lo scorrere del tempo e di notare il momento preciso in cui decidevano di muovere il polso. I partecipanti riferirono di aver avuto l’intenzione di muovere il polso circa 200 millisecondi prima del momento in cui avevano effettivamente cominciato ad agire. Libet misurò anche il “potenziale di prontezza” presente nel cervello dei soggetti esaminati e verificò che tale potenziale di prontezza si registrava circa 550 millisecondi prima che l’azione avesse inizio. La conclusione è che gli eventi cerebrali che producono il movimento si erano svolti circa 350 millisecondi prima che i soggetti divenissero consapevoli di aver preso una decisione. Da questo esperimento si possono trarre importanti conseguenze, alcune delle quali riguardano, in particolare, il libero arbitrio. I numerosi esperimenti di Libet e dei suoi collaboratori sono stati pubblicati in volumi e articoli rivolti agli specialisti della materia. Dal volume Mind Time. Il fattore temporale della coscienza, trarrò i passi che seguono, allo scopo di dare una chiara e precisa rappresentazione del suo pensiero.
Libet inizia ponendosi le seguenti domande:
Il problema del rapporto mente-cervello e quello delle basi cerebrali dell’esperienza cosciente possono essere studiati sperimentalmente. Molte delle nostre funzioni mentali si svolgono inconsciamente, senza che ne siamo consapevoli. Come fa il cervello a distinguere fra eventi mentali consci e inconsci? Come possono le attività fisiche delle cellule nervose del cervello produrre fenomeni di esperienza soggettiva conscia, fenomeni non fisici, che comprendono la consapevolezza sensoriale del mondo esterno, pensieri e sentimenti di bellezza, d’ispirazione, di appagamento spirituale? Come si può gettare un ponte sull’abisso che separa “il fisico” (il cervello) dal “mentale” (le nostre esperienze consce soggettive)?
Per rispondere a tali quesiti, egli prende in considerazione alcune tesi filosofiche, come quelle del materialismo e del determinismo, secondo cui la materia osservabile è la sola realtà e tutto, incluso il pensiero, la volontà e i sentimenti, può essere spiegato solo in termini di materia e di leggi che la governano. Secondo la concezione deterministica, la consapevolezza che abbiamo di noi stessi e del mondo intorno a noi è solo un sottoprodotto, un epifenomeno di attività neurali, che non ha nessuna capacità indipendente d’influenzare o controllare tali attività. Contro tale posizione filosofica, Libet dichiara che non esiste alcuna garanzia che il fenomeno della consapevolezza sia spiegabile nei termini della fisica che oggi conosciamo. In effetti, i fenomeni mentali relativi alla coscienza non sono spiegabili con la conoscenza dell’attività delle cellule nervose, né si possono ricondurre a essa. Se guardiamo nel cervello, vedremo le connessioni neurali e i messaggi neurali che scoppiettano dappertutto, in quantità paurosa. Ma non vedremo nessun fenomeno mentale soggettivo consapevole. Soltanto il resoconto dell’individuo che sta facendo esperienza potrà dire qualcosa.
Libet affronta il problema fondamentale: il ritardo nella nostra consapevolezza sensoriale cosciente.
Se si batte un dito sul tavolo, si ha la percezione dell’evento come se accadesse in “tempo reale”. Soggettivamente cioè si sente il tocco nello stesso momento in cui il dito entra in contatto col tavolo. Ma i nostri risultati sperimentali conducono, con ogni evidenza, a una scoperta sorprendente, direttamente contrapposta alla nostra personale intuizione e percezione: il cervello ha bisogno di un periodo relativamente lungo – fino a circa mezzo secondo –per attivarsi in modo appropriato e indurre la consapevolezza dell’evento. Se la consapevolezza di tutti gli stimoli sensoriali è ritardata di circa 0,5 secondi, allora la nostra consapevolezza del mondo sensoriale è sostanzialmente ritardata rispetto al suo effettivo verificarsi. Ciò di cui diventiamo consapevoli è già accaduto circa 0,5 secondi prima. Non siamo coscienti del reale momento del presente. Siamo sempre un po’ in ritardo.
Libet illustra il ritardo della nostra consapevolezza con un esempio.
All’improvviso, mentre state guidando in una strada di città a 45 km all’ora, vi trovate di fronte un ragazzo che rincorre il suo pallone finito in strada. Portate immediatamente il piede sul pedale del freno e l’auto si ferma con grande stridore. Eravate coscienti dell’evento prima di mettere il piede sul pedale del freno? O avete agito in maniera inconscia, diventando consapevoli di quello che stavate facendo solo dopo aver schiacciato il pedale? Le evidenze sperimentali addotte in precedenza mostrano che l’attivazione della corteccia sensoriale deve durare circa 500 millisecondi affinché si abbia consapevolezza del segnale sensoriale. Nonostante questo presunto ritardo di circa 500 millisecondi nella nostra consapevolezza del ragazzo e della palla, siamo in grado di mettere il piede sul pedale circa 150 millisecondi dopo che il ragazzo è apparso di fronte a noi. Quindi, quest’azione deve essere prodotta in maniera inconscia, senza consapevolezza. Mettere il piede sul pedale del freno non è un semplice riflesso spinale. Comporta il riconoscimento della natura del segnale (in questo caso un ragazzo) e una decisione che spinge ad agire a non investirlo. E questa funzione mentale piuttosto complessa viene portata avanti inconsciamente.
Dopo aver più volte usato il termine “cosciente”, Libet avverte l’esigenza di chiarirlo.
A questo punto, dovremmo chiarire cosa intendiamo per funzioni inconsce (non coscienti) e come queste si distinguano dalle funzioni mentali coscienti. La prima caratteristica di un’esperienza cosciente è la consapevolezza. Questo è un fenomeno soggettivo, accessibile solamente all’individuo che vive l’esperienza. Per studiare la consapevolezza, dobbiamo affidarci alla capacità di una persona di raccontare che ha provato tale o tal altra esperienza. Viceversa, considereremo una funzione o un evento come inconsci quando la persona non ha una consapevolezza tale da permetterle di riferire dell’evento. In particolare, sognare è chiaramente un processo cosciente, sebbene i contenuti dei sogni possano contenere eventi distorti. Si ricorda poco dei sogni, o addirittura non si ricordano affatto. Costituiscono, quindi, esempi di consapevolezza con memoria scarsa o del tutto assente. I processi mentali consci e inconsci differiscono principalmente per il fatto che nei primi è presente la consapevolezza, che manca negli altri. Abbiamo visto che il cervello ha bisogno di almeno 0,5 secondi per “produrre” la consapevolezza di un segnale sensoriale, mentre le funzioni non coscienti sembrano richiedere molto meno tempo (100 millisecondi circa). Che cosa fa il cervello in quel breve periodo di attivazione, di durata troppo corta per produrre consapevolezza? Lungi dall’essere inattivo, in questo lasso di tempo il cervello mostra risposte neurali registrabili che assomigliano a quelle che si svilupperanno fino a divenire adeguate per la consapevolezza.
Libet ora sofferma la sua indagine su quei casi in cui l’inconscio produce effetti molto tempo prima che si manifesti la consapevolezza.
È possibile che tutti gli eventi mentali coscienti inizino in effetti come eventi inconsci, prima che appaia una qualunque forma di consapevolezza. Possediamo già l’evidenza sperimentale che questo accade nel caso delle sensazioni corporee. Sembra verosimile che tale requisito fondamentale possa applicarsi anche ad altri tipi di consapevolezza: non solo per la vista, l’udito, l’olfatto e il tatto, ma anche per i pensieri coscienti e le sensazioni, emotive e no. I pensieri di vario tipo, le immaginazioni, gli atteggiamenti, le idee creative, la soluzione di problemi, e così via si sviluppano inizialmente come non coscienti. Tali pensieri inconsci riescono a raggiungere la consapevolezza cosciente di una persona se le attività cerebrali appropriate durano abbastanza a lungo.
Ecco alcuni esempi:
Vocalizzare, parlare e scrivere sono azioni che rientrano tutte nella stessa categoria, vengono cioè verosimilmente tutte iniziate in modo non cosciente. Per esempio, nel caso del discorso parlato questo significa che il processo che fa iniziare a parlare, e perfino quello che determina il contenuto di ciò che viene detto, ha avuto inizio ed è stato preparato inconsciamente prima dell’azione vera e propria del parlare. Se il requisito di durata per la consapevolezza fosse richiesto anche in questo caso, sarebbe evidentemente impossibile pronunciare in modo rapido serie di parole, come facciamo correntemente, se si dovesse diventare coscienti di ogni singola parola prima di pronunciarla. Nel modo di parlare fluente, le parole possono apparire “da sole”, cioè in modo inconscio. Ma anche il suonare strumenti – come il pianoforte o il violino – o il cantare coinvolgono una simile esecuzione inconscia. I pianisti spesso suonano una rapida successione di note in cui le dita di tutte e due le mani colpiscono i tasti così velocemente che sono difficilmente visibili. E non solo, ogni dito deve colpire il tasto giusto del pianoforte in ogni sequenza di note. Sarebbe impossibile per un pianista essere consapevole in modo cosciente dell’azione di ogni dito se davvero esiste un ritardo sostanziale prima della consapevolezza di ogni movimento del dito. In realtà, i musicisti raccontano che non sono consapevoli dell’intenzione di attivare ogni dito, tendono invece a concentrarsi sull’esprimere la loro sensibilità, le loro emozioni musicali. Anche queste emozioni nascono in modo non cosciente, prima che si sviluppi una qualunque consapevolezza basata sul nostro principio che la durata è essenziale per produrre consapevolezza. Strumentisti e cantanti sanno che se si soffermano a “pensare” alla musica che stanno eseguendo, la loro espressività risulterà forzata e impacciata.
Da questi esempi, Libet tra la conclusione.
Tutte le risposte comportamentali e motorie che seguono immediatamente i segnali sensoriali sono date in modo inconscio. La risposta può aver luogo fra 100 e 200 millisecondi dopo la somministrazione del segnale, quindi molto tempo prima che ci si possa aspettare che se abbia consapevolezza. Molte azioni negli sport rientrano in questa categoria. Un tennista professionista deve rispondere a una palla che arriva a una velocità di 160 km all’ora e segue una traiettoria curva. Questi giocatori raccontano di essere consapevoli dei movimenti con cui l’avversario si prepara a servire la palla, ma non sono immediatamente consapevoli della posizione della palla nel momento in cui rispondono al servizio. Si può perfino aggiungere che, in generale, sono grandi atleti quelli che lasciano che il loro inconscio prenda il sopravvento sulla mente cosciente. Gli atleti raccontano che se provano a “pensare” alle risposte immediate (a esserne cioè consapevoli) hanno meno successo. Viene la tentazione di generalizzare la veridicità di queste osservazioni a tutti i processi creativi, nelle arti, nella scienza e nella matematica.
I risultati sperimentali fin qui esibiti hanno preparato il terreno per l’analisi del libero arbitrio. Al riguardo, Libet così si esprime.
Il modo in cui il cervello gestisce le azioni volontarie è un argomento di fondamentale importanza per il ruolo della volontà cosciente e, oltre a questo, per la questione del libero arbitrio. Comunemente si pensa che, in un atto volontario, la volontà cosciente di agire appaia quando iniziano le attività cerebrali che portano ad agire o addirittura prima. Se questo fosse vero, l’atto volontario sarebbe iniziato e determinato dalla mente cosciente. Ma se non fosse così? Sarebbe mai possibile che la volontà cosciente di agire appaia prima che la persona sia consapevole della sua intenzione di agire? Le nostre ricerche ci hanno portato ad accertare che la consapevolezza sensoriale è ritardata per un sostanziale periodo di tempo, in cui si verificano certe attività cerebrali; e questo apre una parziale possibilità di risposta positiva. Se la consapevolezza della volontà o intenzione di agire fosse anch’essa ritardata del periodo di tempo necessario per il verificarsi di attività che durano circa 500 millisecondi, sembrerebbe possibile che le attività cerebrali che danno inizio a un atto volontario comincino molto prima che la volontà cosciente di agire si sia adeguatamente sviluppata. Siamo stati in grado di esaminare questo problema sperimentalmente: abbiamo scoperto che il cervello mostra un processo d’iniziazione che comincia 550 millisecondi prima dell’atto liberamente volontario. Invece, la consapevolezza della volontà cosciente a compiere l’azione appare solo fra 150 e 200 millisecondi prima dell’azione stessa. Il processo volontario inizia quindi inconsciamente, circa 400 millisecondi prima che il soggetto diventi consapevole della sua volontà o intenzione a compiere l’azione. Ciò implica che il libero arbitrio, se esiste, non inizierebbe come azione volontaria.
La scoperta che il processo volontario viene iniziato in modo inconscio fa sorgere il problema: la volontà cosciente svolge qualche ruolo nel compimento di un’azione volontaria? Libet pensa di sì.
La volontà cosciente appare in effetti 150 millisecondi prima dell’azione motoria, perfino se segue l’inizio dell’azione cerebrale di almeno 400 millisecondi. Questo permette potenzialmente d’influenzare o controllare il risultato finale del processo di volizione. Un intervallo di 150 millisecondi metterebbe a disposizione un tempo sufficiente durante il quale la funzione cosciente potrebbe influenzare il risultato finale del processo volontario. La volontà cosciente può decidere se permettere al processo volontario di andare a compimento, dando luogo all’atto motorio. Oppure, la volontà cosciente può “mettere il veto” al processo e bloccarlo, di modo che non avvenga nessun atto motorio. Il libero arbitrio cosciente non dà inizio alle nostre azioni liberamente volontarie. Può invece controllare il risultato o l’esecuzione attuale dell’azione. Può consentire all’azione di continuare, o può metterle il veto, in modo da non farla accadere. Consentire la continuazione del processo di volizione che porta a un atto motorio può coinvolgere anche un ruolo attivo della volontà cosciente. In questo caso non sarebbe una semplice osservatrice passiva. Si può ritenere che le azioni volontarie comincino con iniziative inconsce che vengono “borbottate” dal cervello. La volontà cosciente quindi selezionerebbe quali di queste iniziative possono proseguire per diventare un’azione, o quali devono essere vietate e fatte abortire in modo che non compaia nessun atto motorio.
La conclusione cui perviene Libet è che il libero arbitrio esiste, anche se in modo parzialmente differente da come esso è stato rappresentato in filosofia. Il libero arbitrio non è solo espressione dell’attività cosciente del cervello, ma inizia prima nell’inconscio ed esercita un veto circa la possibilità di arrivare o no all’azione.
Il Libero arbitrio, come emerge dalle ricerche nelle neuroscienze, assume una caratterizzazione che solo parzialmente è simile a quelle che ne vengono date in filosofia. In tutte le interpretazioni filosofiche, il libero arbitrio è strettamente connesso con l’attività cosciente dell’uomo: l’azione inizia nello stesso istante in cui il soggetto ha deciso di compierlo. Negli esperimenti di Libet, invece, il libero arbitrio inizia nell’inconscio prima ancora che il soggetto ne abbia avuto consapevolezza.
Oltre questa differente rappresentazione, il libero arbitrio esprime la possibilità, da parte dell’uomo, di modificare le sue scelte: un’azione iniziata può essere non portata a compimento se il soggetto cambia volontà.
La mia proposta di fondazione epistemologica delle scienze sociali, fin dai primi tentativi, è stata basata sull’esistenza del libero arbitrio: il modo d’intendere il normativo (come dover essere) e il modello pratico-inferenziale di spiegazione dell’azione sono applicazioni che presuppongono il libero arbitrio. Le ricerche sperimentali di Libet e le relative conseguenze teoriche giustificano le scelte da me fatte e le mettono al riparo dalle critiche da parte di coloro i quali, in un modo o in un altro, ricercano nella condotta umana una qualsiasi forma di determinismo.
Sul piano generale, Libet ha chiaramente messo in crisi tradizioni filosofiche come il materialismo, l’empirismo, il positivismo logico e la filosofia analitica.